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Alimentazione: quanto le tue abitudini impattano sull'ambiente?
Vincono di gran lunga i tessuti sintetici. Per uguagliare l'impatto ambientale dei capi in nylon riciclato (il tessuto più sostenibile), i capi in lana devono essere 10 anni in più e quelli in seta ben 16 anni in più. Ma non dobbiamo rifarci il guardaroba: basta imparare ad ammortizzare l’impatto ambientale dei tessuti che più amiamo.
Chissà come reagiremmo se il nuovo maglione che siamo intenzionati a comprare fosse accompagnato da un cartellino con l’avvertenza: «Se indossi questo capo meno di 400 volte, il tuo acquisto è insostenibile e può aumentare il riscaldamento globale». Oppure se contenesse l’esplicita raccomandazione a impegnarci a usarlo per almeno dieci o addirittura quindici anni. Chissà se questi avvisi riuscirebbero ad abbassare la temperatura degli acquisti compulsivi, che (purtroppo) muovono gran parte del mercato della moda e che tanti danni fanno all’ambiente. Forse ci spingerebbero a riflettere su cosa alimenta il nostro desiderio di possesso, se un’infatuazione effimera (e allora meglio lasciar perdere) oppure un amore destinato a durare.
Mitica nella storia delle pubblicità verdi è rimasta l’iniziativa del brand Patagonia, che durante il Black Friday del 2011 comprò un’intera pagina del New York Times per esortare i lettori a non acquistare la sua giacca sportiva: «Don’t buy this jacket». Il motivo? Gli innumerevoli costi ambientali sostenuti per produrla, puntualmente elencati accanto all’immagine del capo. Il messaggio — genuinamente ambientalista, come dimostrano la storia e le buone pratiche di Patagonia — fu talmente apprezzato dal pubblico da avere l’effetto contrario, cioè far aumentare le vendite. Fu un colpo di genio, certo, ma servì davvero a sostenere la causa ecologista?È lecito chiederselo, visto che non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi che quella del tessile e dell’abbigliamento è tra le industrie più inquinanti al mondo, eppure il macigno dei problemi è sempre lì: compriamo troppi vestiti e li indossiamo sempre meno, prima di liberarcene.
A parte il calo causato nel 2020 dal Covid, le vendite sono rimaste relativamente stabili nell’ultimo decennio. Per contro, il tempo di utilizzo dei capi è diminuito del 36% negli ultimi 20 anni, secondo la Ellen MacArthur Foundation. Se poi guardiamo agli indumenti acquistati nelle catene del fast fashion, più della metà alberga negli armadi per neppure un anno intero. Urge allora dare sostanza all’adagio che sentiamo ripetere di continuo: «Acquistare meno, acquistare meglio». Sulla quantità abbiamo già detto, ma sulla qualità c’è molto da spiegare. Cosa significa meglio per noi e meglio per l’ambiente? Queste due esigenze coincidono? I più sono convinti che i tessuti naturali − di origine vegetale (cotone, lino, canapa, denim) o animale (lana, seta, cuoio) − siano più gentili con il pianeta, perché appunto “naturali”, e in gran parte biodegradabili. Mentre quelli sintetici − nylon, poliestere, pvc, elastan − sono ritenuti più inquinanti, perché ottenuti da polimeri a partire dal petrolio. Quanto alle fibre artificiali, come la viscosa (derivata dalla lavorazione della cellulosa del legno), nell’opinione comune sono spesso assimilate a quelle sintetiche. Le credenze però si scontrano con la realtà.
La verità è che ogni tessuto fa storia a sé e definire la sostenibilità di un prodotto significa considerare gli impatti lungo tutto il suo ciclo di vita. Fin dalla sua origine, cioè da come si ottiene la materia prima. A partire dagli allevamenti, se parliamo di pelle o lana, oppure dalle risorse agricole, per il lino, il cotone, la canapa o il denim. Ad esempio per questi ultimi occorre tener conto dell’uso del suolo per la coltura, dell’impiego di pesticidi e fertilizzanti, del consumo d’acqua... Mentre per le fibre sintetiche entrano in gioco l’estrazione di petrolio, il consumo di energia, l’uso di sostanze chimiche, le emissioni e gli scarichi. E per ogni capo, che sia sintetico o naturale, di tutto ciò che comporta ogni fase successiva: filatura, tessitura, tintura, stampa e finissaggio, confezione, trasporto e distribuzione, lavaggio e stiro, fino allo smaltimento (discarica o inceneritore) o al riciclo.
Si tratta di calcoli complessi, per i quali esiste una metodologia standardizzata e applicabile a ogni tipo di prodotto o servizio, detta Life Cycle Assessment (LCA), cioè valutazione del ciclo di vita. È il procedimento che abbiamo seguito per analizzare 18 materiali tessili usati nell’industria dell’abbigliamento. Nel nostro scenario sono stati considerati i capi di due tipologie − maglie e pantaloni − venduti in Italia ma prodotti in Cina. Inoltre abbiamo ipotizzato che il consumatore utilizzi ciascun capo per quattro anni e che lo indossi 170 volte, lavandolo dopo ogni tre usi. Tra i numerosi indicatori di impatto ambientale, sono cinque quelli più importanti, in quanto insieme costituiscono il 70% degli impatti totali: l’incidenza sul riscaldamento globale, il grado di tossicità per l’uomo, il consumo di suolo, l’uso di risorse non rinnovabili e il consumo di acqua.
I risultati non lasciano spazio a dubbi. Sono i capi realizzati con tessuti sintetici quelli che fanno registrare le migliori performance ambientali. Tra questi il più sostenibile è il nylon, in particolare quello riciclato al 100%, tant’è che lo abbiamo considerato come termine di paragone per calcolare quanto tempo e quante volte in più i capi ottenuti con altri materiali devono essere usati per ottenere la stesso punteggio in sostenibilità. Anche tra le fibre sintetiche si notano differenze significative. Per esempio, una maglia in poliestere deve essere indossata 50 volte in più e una in elastan 31 volte in più per eguagliare le prestazioni ambientali di una in nylon riciclato. Sul versante diametralmente opposto al nylon riciclato troviamo la pelle naturale, che è il materiale con le maggiori ripercussioni per il pianeta, perché il suo ciclo di vita ha forti ricadute su tutti e cinque i maggiori indicatori di impatto. Tant’è che rispetto al nylon riciclato deve essere usata per ulteriori 23 anni e 9 mesi, e indossata oltre mille volte in più. La sostituzione della pelle naturale con quella sintetica è la strategia che consente di guadagnare più punti nella partita ambientale, perché la similpelle assorbe i costi ambientali con oltre 22 anni di anticipo rispetto alla pelle naturale.
Si rilevano differenze sostanziali anche tra le fibre riciclate e le corrispondenti versioni convenzionali: se il capo in nylon vergine deve essere usato 14 volte in più per eguagliare le prestazioni ambientali del nylon riciclato, tra poliestere vergine e quello riciclato questa forchetta si amplia (25 volte). Nel caso dei tessuti naturali abbiamo confrontato cosa avviene tra cotone e denim biologici e i corrispettivi convenzionali: nello scenario considerato la bilancia della sostenibilità sembra pendere a favore di primi. Cotone e denim convenzionali devono essere usati rispettivamente 74 e 67 volte in più rispetto ai loro corrispondenti biologici.
Resta il fatto che i materiali naturali escono fortemente penalizzati dalla LCA. Dopo la pelle, sono nell’ordine seta, lana, cotone, denim, canvas (un cotone più resistente), lino e canapa a infliggere all’ambiente i costi maggiori. Ma, come si vede dai dati, con differenze davvero notevoli tra una fibra e l’altra: se per raggiungere lo stesso livello di sostenibilità del nylon 100% riciclato la canapa e il lino richiedono circa due anni di utilizzi aggiuntivi, per il canvas si sale a tre anni, per il cotone e il denim a quattro, per la lana a dieci e per la seta addirittura a sedici.
Come tutti sanno, la composizione fibrosa dei capi in commercio il più delle volte non è pura, come nella nostra indagine, ma composita: le fibre naturali e sintetiche sono mescolate nei modi e nelle percentuali più diverse, con varianti praticamente infinite. Questo rende le scelte dei consumatori (e le possibilità di riciclo) più complicate. Del resto, quando si parla di sostenibilità, quasi mai si è chiamati a scegliere tra bianco e nero, bensì tra moltissime sfumature di grigio. Va anche detto che, sebbene il preoccupante fenomeno del rilascio delle microplastiche da parte dei tessuti sintetici sia ormai certo e acclarato, la valutazione del ciclo di vita dei prodotti tessili non può ancora tenerne conto, dal momento che in letteratura mancano ancora misurazioni precise. Un dato, questo, che potrebbe far segnare punti a sfavore delle fibre sintetiche.
Ovviamente i risultati di questa indagine non devono certo indurci a inzeppare il guardaroba di capi in nylon e poliestere a discapito di quelli in lana, seta o cotone. La conoscenza delle differenze di impatto ambientale dei vari materiali deve farci tenere comportamenti più consoni e sostenibili. Per esempio, chi desidera un abito di seta è meglio che sia sicuro di ciò che sta acquistando (della qualità, della fantasia, della taglia...), perché dovrà prendersene cura e usarlo per molti anni, cioè il tempo necessario per ammortizzare il suo impatto ambientale. Che ora sappiamo essere molto lungo.
L’errore più grande (e purtroppo molto comune) che si può fare è quindi accorciare la vita utile dei capi. Secondo i nostri calcoli, se per esempio un indumento che dovrebbe essere usato per quattro anni lo si utilizza solo per uno, come succede a causa degli effetti perversi del fast fashion, il peso per l’ambiente aumenta dal 130 al 268%. E optare per i capi realizzati in Europa è una scelta verde? Sì, ma non nella misura sperata: il taglio dell’impatto è dell’8% appena. Questo perché il trasporto e la distribuzione sono elementi che incidono poco sul ciclo di vita di questi prodotti.
Oltre all’impegno di acquistare meno e meglio, ecco tutto quello che puoi fare per rendere il tuo armadio più sostenibile.
È la prima e più efficace strategia da adottare per ridurre l’impatto ambientale del tuo guardaroba. Massimizzando l’utilizzo dei tuoi abiti (anche grazie alla donazione, allo scambio o alla rivendita) contribuisci a ridurre il loro impatto in media del 20%. Se poi il capo ha bisogno di riparazioni, il vantaggio si riduce, ma rimane sempre alto (18%). Insomma, no fast fashion, sì slow fashion.
Mentre la sostenibilità dei filati da coltivazioni biologiche al confronto con le coltivazioni tradizionali è ancora dibattuta dalle varie fonti in letteratura, una cosa sembra certa: se invece dei capi in fibre vergini scegli quelli in fibre riciclate fai un bel regalo al pianeta. Per esempio il nylon e il poliestere riciclati consentono un taglio degli impatti in media del 15% rispetto ai corrispettivi meno sostenibili.
Se invece di buttare il vecchio vestito nel sacco di rifiuti indifferenziati, lo riponi in uno degli appositi contenitori per la raccolta degli abiti usati sparsi nella tua città, consentirai una riduzione media del 12% del suo impatto ambientale. Nel prossimo futuro si potrà fare meglio, visto che si è appena costituito il consorzio Ecotessili per la raccolta e la gestione del fine vita del tessile.
Ci sono molte cose che puoi fare per rendere il tuo guardaroba più sostenibile. Anche se ciascuna azione contribuisce ad alleggerire l’impatto ambientale di una percentuale inferiore al 10%, tutte insieme fanno una bella cifra: acquista indumenti realizzati in Europa (-8%), scegli tessuti non tinti (-5%), lava il bucato in acqua fredda (-5%) ed evita capi con applicazioni e decorazioni (-2%).
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